Gli ostacoli sono molti, anzi troppi. Lo rivela un'indagine Istat di Silvia Tessitore. L'Organizzazione Mondiale della Sanità certifica che l'Italia ha un livello di fecondità tra i più bassi dei paesi sviluppati.
L'Istituto Nazionale di Statistica, attraverso l'indagine Essere madri in Italia 2005, si è preoccupato di capire perché. I risultati dell'indagine, come vedremo, vanno ben oltre l'analisi demografica sulle donne in età feconda (15/49 anni): ci offrono lo spaccato di un paese che, pur enfatizzando oltre misura il valore della famiglia e della maternità, fa pochissimo per aiutarle e tutelarle, trascurandone il valore strategico per quel che riguarda sia il benessere individuale e collettivo presente che le prospettive future dello sviluppo del paese.
E' di questi giorni la notizia che in Francia si assisterebbe a un vero e proprio nuovo baby-boom : gli osservatori sono concordi nell'attribuire il fenomeno ai risultati delle politiche per la maternità e la famiglia attuate dai nostri cugini d'oltralpe negli ultimi anni. In Italia, invece, ci salviamo per un pelo dalla natalità zero (quando cioè la differenza tra nuovi nati e deceduti è, appunto, pari a zero) solo grazie all'immigrazione.
Le italiane trovano sempre più difficile fare e crescere un bambino, tant'è che ne hanno una media di 1,33 cadauna: aspirerebbero a un ben più generoso 2,19 ma sono costrette a fermarsi, quando va bene, al primo figlio. Con tutto quel che ciò comporta: non solo qui e ora, alla singola madre, alla singola famiglia, ma alla popolazione in generale, la cui vita media si allunga e quindi invecchia sempre più, con ricadute importanti sulla vita del sistema-paese, dal punto di vista economico, sanitario, sociale, e, perché no, anche politico.
La società italiana come la nostra classe politica è sempre più gerontocratica, e spesso i giovani, per trovare spazio, specialmente nello studio e nelle professioni, sono costretti a emigrare all'estero. Le connessioni tra tutti questi aspetti del problema sono talmente evidenti eppure così trascurate - e non da oggi - che viene da pensare che l'Italia sia destinata al declino.
La flessione della natalità pare irreversibile dal 1965, ma la progressiva diminuzione delle nascite viene da lontano: è quasi un secolo che facciamo via via sempre meno bambini, e la impercettibile ripresa registrata a inizio anni Novanta non dà frutti degni di nota. Una prova difficile, che attende anche l'attuale governo (vedi ITALIA - 1. FINANZIARIA 2007: LE MISURE PER LA FAMIGLIA E LE DONNE in questo numero della newsletter).
Ma torniamo al qui e ora. Le donne italiane - dice l'Istat - mostrano un'elevata propensione a diventare madri, ma si scontrano con mille difficoltà di ordine pratico. Il dato medio (1,33 figli ciascuna) è di pochissimo superiore a quello registrato dieci anni fa - nel 1995 era l'1,19 - segno che, in due lustri, i progressi sono stati veramente scarsi. Se dieci anni fa, insomma, al secondo o al terzo figlio ci si poteva pensare, ora questa scelta è diventata materialmente quasi impossibile. Eppure, per la maggior parte delle intervistate, l'ideale di famiglia - oggi - sarebbe con due figli (61 per cento), o anche con tre (26 per cento), solo il 12 per cento (+3 rispetto al 2002) sostiene che un unico figlio la soddisfa pienamente. Non è il desiderio di maternità, quindi, quello che manca.
L'Istat ha interpellato nel 2005 cinquantamila donne che hanno avuto un figlio nel 2003 (il 10 per cento del totale: nel 2003 sono nati circa cinquecentomila bambini). Oggetto dell'indagine sono quindi madri di bambini tra i 18 e i 21 mesi: Si tratta - scrive l'Istat - di un lasso di tempo particolarmente significativo, essendo quello in cui generalmente matura la scelta di avere o meno un altro figlio e in cui si pongono in modo accentuato le problematiche del conciliare gli impegni lavorativi extradomestici con quelli familiari.
Le madri che escludono la possibilità di un secondo figlio sono il 40 per cento del totale (+ 3 per cento rispetto al 2002). Dicono no soprattutto per motivi economici, ma anche di età, lavoro, salute, perché hanno difficoltà nell'accudire il bambino, perché la gravidanza e la cura dei figli costano così tanti sacrifici che, dopo la prima esperienza, non si ha voglia di ricominciare. La domanda è: se già mi destreggio a malapena con uno, come farei con due?
Le madri laureate sono quadruplicate, triplicate le diplomate, dal 1980, perché oggi, prima di affrontare la maternità, le donne vogliono chiudere il proprio percorso formativo e magari provare a inserirsi nel mondo del lavoro. L'età media delle primipare italiane è dunque cresciuta: 29 anni (+4), ma a 30 anni solo il 56,8 per cento delle più istruite ha avuto il primo figlio, contro il 69,8 per cento delle altre. Il 63 per cento delle mamme intervistate dall'Istat nel 2005 aveva un lavoro o lo stava cercando (+ 6 per cento rispetto al 2000/2001), il 78,2 per cento aveva un contratto a tempo indeterminato: segno questo che, senza adeguate garanzie (come nel caso dei contratti atipici, o di altre forme di lavoro precario e saltuario), i figli non si fanno. Il 54 per cento delle madri lavora per necessità, perché con un solo reddito non si arriva a fine mese. Il 21 lavora per la propria gratificazione e realizzazione personale, il 18,8 per sentirsi indipendente dal partner.
Ma... Dopo la nascita del primo figlio cominciano le dolenti note. Il 40,2 delle madri occupate dichiara di avere difficoltà nel conciliare vita lavorativa e vita familiare. Gli aspetti più critici sono la rigidità dell'orario di lavoro (non è possibile entrare più tardi, o uscire prima, se necessario, o usufruire di permessi), i turni, il fatto di lavorare di sera, o nel fine settimana. Riferiscono difficoltà superiori alla media le madri con un'istruzione più elevata (il 48,8% delle laureate) e quelle che lavorano full-time (49,8%). I problemi di conciliazione sono appena un po' più lievi per le madri che utilizzano servizi pubblici o privati, o reti di aiuto informale: ma anche il 46,5% di chi usufruisce dell'asilo nido pubblico, il 47,2% di chi affida il bambino a una baby-sitter e il 38% delle madri aiutate dai nonni dichiara di avere problemi di questo tipo. E così, il 18,4 per cento delle donne occupate all'inizio della gravidanza, al momento dell'intervista aveva lasciato il lavoro: per la maggior parte volontariamente, ma il 5,6 per cento è stata licenziata perché incinta.
Il rischio di perdere il lavoro, dice l'Istat, è più alto al sud e tra le madri con la sola licenza media inferiore. Di quelle che restano in servizio, alcune scelgono il part-time (in leggera crescita, +3 per cento), quasi tutte le altre ricorrono a periodi di aspettativa o ai congedi parentali (molto più al nord, 80 per cento, che al sud, 62,7 per cento).
La legge 53 del 2000 estende anche ai padri il beneficio dei congedi parentali, ma solo l'8 per cento ne usufruisce: La cura dei figli - nota l'Istat - resta un fatto da donne. A supportare i genitori sono ancora e sempre i nonni: il 52,3 per cento si occupa dei nipotini di uno o due anni. Solo il 13,5 dei figli delle intervistate frequenta un asilo pubblico (+1,3 rispetto al 2002), il 14,3 per cento un asilo privato (+3,5), il 9,2 per cento è affidato a una baby sitter (-2 per cento). I genitori che si occupano interamente dei propri figli sono il 7,3 per cento. Geograficamente, i bambini che frequentano un asilo pubblico sono più numerosi nella provincia autonoma di Trento (28,9%), in Emilia-Romagna (26,1%), in Toscana (21,1%), nelle Marche (17,5%) e in Liguria (17,3%). I livelli più bassi si osservano al meridione- in Campania (2,2%), Calabria (3,2%), Molise (5,4%), Puglia e Basilicata (8,5%) - dove invece cresce l'offerta di servizi privati. Il 28,3 per cento delle madri che non si avvale di un asilo dichiara però che non si tratta di una libera scelta: non ha trovato posto, o il costo del servizio era troppo alto.
Tra le mura di casa, la situazione non migliora. Il 63 per cento delle madri occupate non riceve alcun aiuto nelle faccende domestiche. Il 52 per cento, invece, ha una collaboratrice, coi costi conseguenti. Il 25 per cento delle donne è aiutato dai nonni (rieccoli!), mentre solo il 17 per cento dei partner collabora. Di questo passo...
La metodologia di indagine è disponibile sul sito dell'Istat all'indirizzo http://www.istat.it/dati/catalogo/20060317_00/ E' possibile confrontare i dati dell'ultima indagine con le precedenti all'indirizzo http://www.istat.it/dati/catalogo/20061220_00/ (gennaio 2007)
2. INDAGINE ISFOL SULLA QUALITA' DEL LAVORO: LE DONNE PIU' SODDISFATTE DEGLI UOMINI (da Dwpress - Numero 4 dell'11 gennaio 2007)
Roma – Secondo l'indagine dell'Isfol sulla qualità del lavoro in Italia 2006, nove lavoratori su dieci hanno un buon rapporto con i colleghi e oltre otto con i propri superiori ma più di cinque sono preoccupati per la propria carriera e crescita professionale: circa il 64% degli occupati è abbastanza soddisfatto del proprio lavoro, mentre il 24% si dichiara molto soddisfatto a fronte di poco meno del 3% che si dice molto insoddisfatto.
Il livello di soddisfazione varia a seconda che si lavori in un'impresa di piccole dimensioni piuttosto che in una grande, nell'industria piuttosto che nei servizi, nel privato piuttosto che nel pubblico.
Ma la soddisfazione rispetto alla propria attività cambia anche con il genere: le donne, secondo l'indagine, risultano più soddisfatte in media degli uomini. Buoni rapporti tra colleghi, ma anche con i capi, tra i motivi di appagamento segnalati dal 90% degli intervistati. L'83% è contento dell'autonomia con la quale può svolgere il proprio lavoro, mentre il 77% si sente a proprio agio al lavoro come a casa . Tra i motivi di insoddisfazione, l'instabilità del rapporto di lavoro e la retribuzione: circa il 20% nel complesso teme di perdere il posto entro un anno, percentuale pari al 60% tra i lavoratori precari; il 55% degli intervistati che si dice preoccupato per le scarse opportunità di carriera (nell'ultima indagine risalente al 2002 la percentuale degli insoddisfatti era del 42%). Secondo l'Isfol, il 46% degli intervistati ha cambiato lavoro almeno una volta nella vita, e tra questi, il 50% ritiene di non averne tratto miglioramenti in termini di carriera e retribuzione. Il 19% si ritiene sottoutilizzato. C'è anche un 1% che pensa di non avere capacità adeguate per svolgere i compiti che gli sono assegnati.
Tra i lavoratori a termine gli insoddisfatti rappresentano oltre il 20%. Il timore più diffuso è quello di perdere il posto (60% contro il 10% degli intervistati con un lavoro stabile), ma è forte anche il disagio per la mancata coincidenza tra il lavoro svolto e quello desiderato (nel 60% dei casi contro il 42% dei dipendenti stabili). Infine, i precari lamentano bassi livelli retributivi, con il 47% che dichiara compensi inferiori a 900 euro contro il 15% dei dipendenti stabili con questa situazione.
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